PandaRaid 2019: l’emozionante racconto di Michele e Davide del Team 328

La settimana scorsa, siamo volati fino a Marrakech per assistere allo spettacolare arrivo della undicesima edizione del PandaRaid e per intervistare Michele Minetto e Davide Baiardi del Team PandaRaid 328, che abbiamo orgogliosamente rappresentato in qualità di sponsor e che abbiamo seguito attraverso i nostri canali Social fin dalla loro partenza da Genova, il 4 Marzo 2019.

Come siete venuti a conoscenza della gara?

D.B  Da un amico. Lo zio della sua fidanzata aveva fatto la gara l’anno scorso e lo ha rifatto anche quest’anno. Così ci siamo detti che sarebbe stato bello provarlo anche noi.

Da dove nasce l’idea della gara? Chi la organizza, da quanto e se promuovono altre competizioni di questo genere.

M.M: E’ una organizzazione spagnola che da ormai undici anni promuove questa gara attraverso il Marocco, estremamente rodata e ben organizzata. Permette a più di 400 equipaggi, quindi 800 persone, di vivere questa avventura in completa sicurezza…

D.B … Sono molto rodati, allo sbarco c’erano 400 auto e siamo stati scortati dal porto fino al campo ad ogni incrocio dalle forze dell’ordine. Una mobilitazione notevole. 

Quanto è stata difficile la preparazione della gara? Ricerca della macchina, sponsor fino al dover arrivare fisicamente in Marocco?

D.B: Diciamo che eravamo divisi in due ruoli: io mi sono occupato della parte tecnica mentre Michele della parte relativa alle relazioni pubbliche e ricerca degli sponsor e promozione. Difficile non è la parola giusta, perché di difficile non abbiamo fatto nulla, ma il tempo che ci abbiamo dedicato non è stato tantissimo. Se riesci a vederti il fine settimana o comunque una sera alla settimana e magari non hai tutto il materiale a disposizione…  Le cose vanno un pochino per le lunghe anche per le cose più semplici. E’ stato facile, perché non abbiamo fatto nulla di complesso, ma allo stesso tempo molto “tirati” perché non avevamo molto tempo a disposizione. 

M.M: Per quanto riguarda gli sponsor, eravamo completamente nuovi a questo tipo di esperienza, senza un background da poter portare. Bisognava trovare sponsor che, piuttosto che dare contributi in denaro, dessero un altra tipologia di contributi. Picasso Gomme, per esempio, è stato contattato e ci ha fornito le gomme di scorta per la gara.

D.B:  Che poi gli ridaremo di altre forme! – ride.

M.M: Se le terranno da parte come souvenir. GNV per quanto riguarda il viaggio, l’Arte del Ferro per quanto riguarda le protezioni. L’obiettivo è stato trovare qualcuno che facesse come mestiere quello di cui avevamo bisogno. Questo ci è tornato utile perché comunque siamo riusciti a tirasse su un a buona quantità di sponsor che ci hanno permesso di concretizzare il viaggio e ridurre di un po’ le spese che, comunque, sono tante per una impresa del genere.

Quali sono state le tappe della gara?

M.M: I ritrovi per la partenza erano due: Madrid per la partenza ufficiale e Motril per l’imbarco e il trasferimento di tutte le auto alla partenza che è avvenuta a Nador. Successivamente, poco fuori Nador, era stato predisposto un campo base sul Lago Mohamed V.  Successivamente siamo arrivati a Bel Frissate, a 323 km. Una tappa lunga, erano previste 8/9 ore di gara, ma abbastanza facile. Permetteva a tutti gli equipaggi, anche chi non aveva mai provato una esperienza del genere, di avere un primo approccio alla gara in se’. 

D.B: Non c’erano grossi ostacoli, zone sabbiose dove ti impantani o trial dove rischi di “spaccare”. Erano terreni fuori strada di montagna abbastanza fattibili.

M.M: Gli organizzatori hanno pensato ogni tappa come una serie di livelli in cui c’era sempre una serie di difficoltà in più che sfociavano nella quinta e ultima tappa più difficile. 

Dopo Bel Frissate siamo arrivati a Maadid, a 371 km. La tappa più lunga come tempo e nella quale iniziano a esserci i primi test, le prime parti un po’ più difficili per via della sabbia che ha messo alla prova gli equipaggi (soprattutto per i 4×2) in quanto se ti impantanavi bisogna scendere, scavare, tirare fuori la macchina….

D.B: Ma c’è molto supporto tra i team. Quando ci siamo impantanati noi o succedeva agli altri, ci si aiutava a scavare e tirare fuori la macchina. Anche 3/4 auto che si fermavano, attaccavi la cinghia davanti e a braccia 5/6 persone ti tiravano fuori.

Vi chiedo: qual è il pubblico della gara? Sono giovani, coppie, di tutte le eta’?

D.B: Il pubblico spazia veramente. Alla premiazione ci hanno fatto vedere che la più giovane aveva 20 anni il più anziano 74. C’erano coppie, gente che corre abitualmente in machina, chi lo fa per la prima volta, chi lo fa per fare una avventura nel deserto e non gliene frega della gara. La puoi affrontare in tanti modi, è aperto a tante tipologie di persone.

M.M: La cosa bella di questa gara è che te la puoi vivere un po’ come vuoi. Se la vuoi vivere in modo agonistico è difficile, tecnica e quindi hai la possibilità di confrontarti. Per ottenere buoni posti in classifica devi sudartela. Però, è anche vero che non è una Dakar. Se te la vuoi godere entro certi limiti te la puoi prendere comoda e puoi permetterti di vivertela un po’ più da “turista”.

D.B: Ma ciò non toglie che non sia impegnativa, la seconda tappa sono appunto 371 km di cui una buona parte in fuoristrada. Anche se non la vuoi prendere in modo agonistico comunque devi fartela tutta con il rischio di spaccare qualcosa.

M.M: Come aspettativa, almeno dal mio punto di vista, mi aspettavo una cosa più tranquilla, invece è veramente, veramente tosta, soprattutto in alcune parti. Nella terza tappa, per rimanere in ordine, Maadid – Merzouga, era la tappa più corta, 160km, ma forse una delle più stancanti e più difficili. Era quasi totalmente in fuoristrada e con tanta sabbia. Qui abbiamo faticato soprattutto in un punto in cui era previsto l’attraversamento di un fiume in secca di 2km e mezzo e c’è stata una buona ora di gruppi di Panda 4×2 che si tiravano fuori l’un l’altro e cercavano di uscire fuori da questo punto.

D.B: E quella dopo, invece, è stata la tappa più spettacolare (la quattro ndr.). Lì era veramente deserto aperto, ma affrontato a partire dalla montagna. Scenari ampissimi, scene alla Madmax come apertura di paesaggio e secondo me anche uno dei più divertenti. Abbiamo fatto il Tobogan de Arena, lo scivolo di sabbia. Praticamente hanno fatto scendere le auto dalla montagna attraverso lo strapiombo di sabbia. Ti buttavi giù con la Panda e poi affrontavi i km successivi in seconda per non rischiare di rimanere impantananti nella sabbia.

M.M: Mi ricordo che, per arrivarci, abbiamo dovuto affrontare una mulattiera molto difficile e, ad un certo punto, abbiamo visto un elicottero, un mezzo di soccorso dell’organizzazione e una Panda sul ciglio del precipizio. All’inizio abbiamo pensato che ci fossero stati dei problemi, che si fossero “piantati”, ma poi ad un certo punto hanno spinto letteralmente la macchina giù dallo strapiombo…

Ed è il ricordo più bello che vi viene in mente di tutta la gara?

M.M:  Eh, probabilmente sì! Io mi aspettavo più o meno quello che abbiamo fatto, ma quella cosa nello specifico, no. Anche solo per un fattore di pericolosità. Avranno sicuramente verificato più e più volta la fattibilità, ma quando ti butti giù dal ciglio di una montagna… Poi alla fine intanto non si è fatto male nessuno quindi la pericolosità era relativa. 

Come Ormisis parliamo di viaggi e scoperta, secondo voi il PandaRaid è solo auto e competizione o anche possibilità di contatto con culture locali/immersione nell’ambiente? 

D.B: Secondo me, è un 60-40. Sessanta può essere la macchina perché è il mezzo che resta centrale e fondamentale nella gara. Deve sopravvivere 2000 km in una ambiente molto particolare, ma è una esperienza fatta per vivere i posti in cui passi. E’ una esperienza a 360 gradi, passi in paesi e paesaggi che non vedresti mai se non nei documentari, posti poveri che non ti immagineresti, paesaggi che non vedresti… Sul fatto di entrare in contatto con la gente è un po’ più difficile: quando arrivi vieni abbastanza “assalito” perché vieni visto come il “ricco turista” dal quale tirare fuori qualcosa, e l’organizzazione è la prima a richiedere di non dare nulla o cercare comunque di avere meno contatti possibili con loro. Più che altro perché può diventare molto pericoloso per loro, alcuni si buttavano letteralmente in mezzo alla strada. Ci è capitato comunque di  forare una gomma e siamo stati aiutati in tutti i modi dai locali, addirittura un bambino ci ha accompagnati da uno che è riuscito a ripararci la gomma. Hai modo, per altri motivi “esterni alla gara” di poter avere un aiuto dalla gente del posto ed entrare in contatto con loro.

Da casa, seguendovi, abbiamo percepito una grande organizzazione nel PandaRaid: riprese aeree, aggiornamenti social anche dagli angoli più sperduti del deserto, buffet, accampamenti… Come è stata vissuta da voi invece, era davvero tutto così perfetto o avete riscontrato qualche gap? 

D.B: In una scala da 1 a 10 darei 11. E’ veramente tutto calcolato fino al minimo dettaglio. Sanno tutto, non gli scappa nulla e probabilmente è per quello che funziona così bene, perché sono rodati: dal mangiare, la cosa che ti serve, l’assistenza meccanica… Abbiamo spaccato un collettore, il meccanico non lo aveva ma lo ha trovato nella notte telefonando al meccanico del villaggio vicino che gli ha trovato il collettore che loro non avevano… Anche per le cose “extra”, non prettamente organizzative, si adoperano per risolvere qualsiasi problema. 

M.M: Anche il team di meccanici, strettamente necessario in quanto ogni sera quindici/venti macchine avevano problemi meccanico-tecnici ed erano attaccate a questi camion officina. Ci sono i meccanici che dalle 4 del pomeriggio fino alle 10 del mattino del giorno dopo lavorano. E’ veramente difficile non arrivare a Marrakech a meno che non ci sia qualcuno che compra di base un’auto non idonea al percorso, con la pretesa di pensare che cinque giorni di raid equivalgano a 5 giorni di strada normale; va a discapito loro. Ma dal unto di vista dell’assistenza, anche quella medica, hanno un elicottero dedicato per qualsiasi motivo. Da quel punto di vista l’organizzazione è eccezionale. Anche nella comunicazione lavorano molto bene, riescono in tempo reale a fornire immagini, video clip.

Sul sito c’era anche una mappa, in tempo reale, con il tracciatore GPS con la posizione di tutte le auto… 

D.B: E’ una cosa che trasmette molta sicurezza, anche se sei in mezzo al nulla, da solo, sai che sanno perfettamente dove sei e si tratta solo di aspettare che ti accompagnino fino al campo.  Spaccano il secondo, sul roadbook (dove c’erano scritte tutte le informazioni), segnano anche in anticipo dove puoi trovare traffico, pericolo (bambini che escono da scuola, gente in bici). E ‘ una organizzazione a 360 gradi.

 

Chiudo con: la rifareste, la consigliereste e a chi.

D.B: Direi entrambe le cose. La rifarei e la consiglierei bene o male a chiunque non si faccia troppo problemi durante la vacanza. Si tratta comunque di dormire in tenda. Se sei uno che si aspetta un resort non credo faccia per te, ma se vuoi vivere una esperienza intensa vale la pena per chiunque. 

M.M: L’unica cosa richiesta è un po’ di conoscenza pratica. Se non hai una conoscenza tecnica è più difficile. Ci vuole un po’ di preparazione, si tratta di una gara automobilista e devi avere un briciolo di conoscenza…  E’ fattibile per chi ha voglia di “sbattersi”, richiede tempo e soldi ma è veramente unica nel suo genere.

Costa Venezia e i segreti delle navi da crociera: intervista allo storico navale Matteo Martinuzzi

In occasione delle recenti celebrazioni per l’arrivo di Costa Venezia e l’innovativa MSC Bellissima, pubblichiamo la nostra intervista a Matteo Martinuzzi, storico navale, collaboratore per Il Secolo XIX, The Medi Telegraph ed esperto di crociere.  L’incontro è avvenuto in occasione della nostra visita al MuCa -Museo della Cantieristica e allo stabilimento Fincantieri di Monfalcone,  in quella che si è rivelata essere una serie di interessanti visite guidate organizzate dal Comune di Monfalcone in accordo con Fincantieri e il museo stesso, che ha sede al pianterreno dell’ex Albergo operai del Villaggio di Panzano.

UD: Le ultime grandi navi danno l’impressione di ricercare nuovamente un contatto con il mare, ponti esterni più estesi, promenades… E’ solo una impressione o alle spalle c’è effettivamente una scelta commerciale ragionata?

“Diciamo che il prodotto della nave nasce dalla richiesta dell’armatore. L’armatore, che richiede una commessa, fa una “wish list” con le caratteristiche del nave. Quindi, la tendenza a trovare aree esterne deriva da una richiesta dell’armatore, non è una questione di mercato. Deriva soprattutto da dove verrà posizionata la nave e dalle rotte che dovrà fare. La Seaside, per esempio, è una nave che è stata progettata per i climi caldi.  La “wish list” che l’armatore fornisce al cantiere costruttore prevede in questo caso una nave per i climi caldi. Però, faccio un esempio: una nave come la Costa Venezia viene concepita con piscine coperte, perché segue le esigenze di una clientela che non ama stare al sole (la clientela cinese ndr.). Quindi non c’è una tendenza fissa secondo la quale le navi del futuro saranno tutte aperte.  La Symphony of The Seas è una nave molto chiusa al mare, orientata all’interno, ma resta comunque una nave bellissima. Quindi diciamo che il mercato varia e gli armatori cercano in base al loro brand di offrire ai passeggeri qualcosa di diverso. Ci sono, adesso, in cantiere una serie di navi molto aperte al mare, che vengono dal progetto della Seaside ma non è detto che ci sia questa tendenza generale”.

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UD: A proposito di aspetti più tecnici, abbiamo anche visto che ci sono delle “prue nuove” su alcune navi. Sulla AidaNova o anche sulla Virgin, con una forma più verticale, fendente. C’è una ragione alle spalle? Qualche vantaggio idrodinamico?

Una prua non viene fatta a casaccio, ci sono alle spalle degli studi di carena per migliorare l’efficienza. Diciamo che la prua di tipo verticale, con bulbi non pronunciati, nasce perché la nave è progettata per velocità di esercizio più basse. La tendenza delle navi del futuro, con questo tipo di prua, è che faranno velocità medie più basse e quindi risparmieranno più carburante. Il bulbo, come si intende sulle navi normali, è efficiente solo sopra i 16 nodi. Quindi si può pensare che queste navi navigheranno ad una velocità inferiore. E’ una linea che viene fatta per risparmiare sul carburante e ovviamente le navi faranno degli itinerari differenti rispetto ad altre con velocità superiori di esercizio.

 

UD: Con Peter Knego avevamo parlato delle differenze di estetica tra i liners di un tempo e le navi di oggi. Quelle di una volta erano progettate da grandi architetti (Renzo Piano e la Crown Princess del 1990), oggi invece sembra che si punti maggiormente ad altri aspetti. E’ vero?

In realtà si punta ancora all’estetica. Fincantieri è molto brava nel ridurre l’effetto “scatola” con espedienti architettonici. Il volume commerciale è un “cubo” per sfruttare al meglio gli spazi;  però comunque gli architetti navali di Fincantieri cercano di ridurre questo effetto con alcuni accorgimenti, come i balconi colorati che alleggeriscono la linea della nave.  Ed esempio,  MSC Seaside ha un lamierino a poppa che fa una leggera curva verso gli ascensori e serve per migliorare l’estetica della nave. Si cerca di migliorare la nave mantenendo la massima efficienza da un punto di vista commerciale ed economico. Non è che non si guardi all’estetica,  quando parlavamo di transatlantici era completamente differente, la nave rappresentava il Paese, era un ambasciatore, se ne facevano poche, non erano un prodotto commerciale come le navi da crociera di oggi. Una filosofia completamente nuova. Il transatlantico faceva linea e già in se stesso doveva essere più veloce, doveva avere linee più filanti per essere penetrante nell’acqua. Nella nave di adesso l‘interesse è nello sfruttare gli spazi commerciali.

UD: Il liner era un prodotto unico, un’icona dello stile, un simbolo. La nave di oggi è una serie, un numero quindi…

Per le navi italiane di un tempo venivano fatti dei concorsi, dovevano rappresentare  al meglio il Made in Italy. Oggi la nave non rappresenta questo. La nave dal punto di vista architettonico non deve rappresentare un paese ma la sua funzionalità commerciale e la sua capacità di dare il benessere al passeggero di stare in quell’ambiente.

UD: Però, se non ci sono navi che rappresentano più uno “Stato” ci sono navi che devono rappresentare l’immagine di un “brand”. Come le Cunard… Navi ancora costruite con l’intento di anteporre il “bello” al “funzionale”…

Ogni brand ha il suo marchio di fabbrica. Quindi gli allestimenti devono richiamare quel marchio. Cunard ha uno stile classico, legato ancora ai transatlantici. Mortola, lo studio genovese che ha allestito la Queen Victoria e la Queen Elizabeth, ha preso a memoria le navi vittoriane di Cunard e quindi il passeggero che sale su Cunard si aspetta di salire a bordo di una nave che rappresenta uno stile da vecchio transatlantico. Ogni nave, ogni brand ha il suo stile. Sicuramente l’architetto che riceve l’appalto per allestire una nave deve cercare di riproporre al meglio lo stile dell’armatore. Non è più una questione di orgoglio nazionale ma di immagine di brand.

EDD: Parlando di estetica, quanto le esigenze ingegneristiche, anche di sicurezza, possono influenzare una certa estetica o urbanistica della nave che deve sottostare a delle esigenze commerciali? Il ponte dedicato allo shopping: una critica che molto spesso è stata fatta alla Costa, è che tendono a farli ad “imbuto”. Lì fin dove arriva l’ingegneristica, l’esigenza commerciale della nave…?

Allora, per quanto riguarda i cosiddetti  “imbuti”, da un punto ingegneristico viene fatto uno studio dei flussi. L’armatore concorda con il cantiere come gestire il passaggio da una parte all’altra della nave. Si può voler far passare i passeggeri davanti ai negozi come no.  Non è legato alla sicurezza.

EDD E’ una questione commerciale…

La nave viene comunque costruita secondo la normativa SOLAS che è la bibbia costruttiva delle navi. Quindi non c’è ragione commerciale che ti possa non far seguire questa normativa. La base per partire sono le norme di sicurezza. Una nave di oggi viene costruita con il “safe-return to port”, Compartimentazione stagna, linea tagliafuoco, non si può andare oltre a queste normative.  Esempio: la Royal Promenade di Royal Caribbean, un enorme salone disposto in lungo, è diviso in paratie tagliafuoco che si chiudono a ghigliottina. Un passeggero “normale” non nota queste cose. Però anche una nave come RCCL, che è strutturata in spazi enormi, deve essere isolata al fuoco. Queste caratteristiche non si possono saltare per motivi di estetica commerciale. Si cercano di mascherare ad esempio le porte tagliafuoco, sono a scomparsa, sono mimetizzate con il colore della parete, ma in caso di necessità sono pronte ad essere chiuse.

EDD: Dopo il disastro della Concordia, da Vespa vennero ospitati degli ingegneri che spiegarono, con il solito e immancabile plastico, che comunque era un disastro che poteva dare il via a dei nuovi studi di sicurezza degli scafi, che avrebbe influito sulla costruzione, su nuovi criteri costruttivi. Però, a memoria mia, anche la Stockholm tagliò l’Andrea Doria di lato, per cui l’affondamento dovuto allo scafo tagliato di lato non è una novità. 

Sulla Concordia sono state dette un sacco di scemenze. Tutto quello che avete sentito in televisione chiudetelo in un cassetto del cervello e abbandonatelo. La Concordia non ha influito per niente sulla regolamentazione della costruzione delle navi. Adesso le navi vengono costruite con il “safe-return to port”: la nave deve essere in grado di rientrare in porto in caso di sinistro con i propri mezzi da 1000 miglia nautiche di distanza. Sono generazioni più avanzate rispetto alla Concordia, ma la “safe-return to port” è entrata in vigore il 1 Luglio 2010, quindi ben prima dell’incidente della Concordia. Le prime navi che sono entrate in servizio con questa normativa sono del 2013 –Royal Princess di Fincantieri-. E’ tomo di 1000 pagine,  però prevede una ridondanza completa della nave che le precedenti non avevano.

EDD Cosa vuol dire ridondanza completa della nave?

Impianti sdoppiati, quindi in caso di black out c’è un secondo quadro di emergenza che permette di evitare il black out completo della nave in avaria. Tipo la Costa Allegra, che era rimasta alla deriva al largo delle Seychelles. Ci sono due ponti di comando, quello titolare e quello di backup, così nel caso di un attacco terroristico, incendio ecc… il primo viene evacuato e c’è il secondo di servizio. C’è un’area che si chiama “The Heaven”, che non ha niente a che fare con quello della Norwegian (area VIP ndr.),  un’area vicina alle cucine dove ci sono sempre servizi igienici, corrente elettrica e dove si possono servire sia passeggeri che equipaggio. Ma tornando alla Concordia, la nave ha resistito molto più di quello che doveva: da un punto di vista costruttivo ha dato degli ottimi risultati, ha galleggiato molto più del previsto, era stata progettata per galleggiare con due compartimenti stagni allagati e nell’incidente erano quattro, quindi il doppio del danno pre calcolato. Da un punto di vista progettuale ha dato possibilità di galleggiare molto di più, salvare molte più persone. E’ stato un risultato molto positivo che ha mostrato quanto la nave fosse robusta.

UD: Recentemente  ho visto un tuo articolo dove parli del ritorno del Mediterraneo come mercato di punta, di una nuova crescita per un mercato che comunque negli ultimi anni è stato in “sofferenza”. E’ una crescita che si registra solo nei grandi porti, già aggregatori di un notevole flusso turistico (Roma, Atene ecc) o anche in scali di nicchia?

Adesso la crescita del Mediterraneo è divisa in due: Mediterraneo occidentale, dove vanno a finire tutte le nuove navi , e il Mediterraneo orientale che è ancora in crisi per i problemi in Turchia, Mar Nero, Tunisia e soprattutto per il problema di Venezia, che era accentratrice del traffico, un porto di riferimento. Non potendo ospitare le “grandi navi” più recenti ed eco-compatibili sta perdendo traffico invece che aumentarlo. Tutta la nuova capacità che viene immessa nel Mediterraneo va nei soliti porti dove si fa il cosiddetto “traghettone” e si riesce a riempirle abbastanza bene a prezzi competitivi.

EDD Quindi i porti italiani del mediterraneo occidentali (Genova-Savona-Napoli-Roma) stanno riscuotendo un successo maggiore.

UD: Venezia:  che cosa ne pensi? Quali potrebbero essere le soluzioni?

Venezia è il tipico scandalo all’italiana:  Si sono fatte delle normative per impedire alle navi più moderne eco-compatibili di entrare nella città. Le navi che abbiamo adesso sono quelle più vecchie, meno sicure e che inquinano di più. Non è stato fatto un bene, è stato fatto un male. E portando navi più piccole sono aumentati i transiti lungo la Giudecca. E’ solo una questione estetica, da un punto di vista di sicurezza, le navi corrono in un canale e se la nave esce da questo canale si insabbia e di certo non finisce su un palazzo. Corrono a 6 nodi con cavo voltato, quindi al minimo problema è il rimorchiatore che ferma la nave.

UD: Due rimorchiatori, giusto?

Sì, uno a prua e uno a poppa. Il futuro sarebbe di riadattare il canale Vittorio Emanuele al traffico delle navi da crociere, che è stato attivo fino agli anni 2000. L’ultima nave che è passata è stata la Costa Tropicale che si è insabbiata nel 2001. Quindi, quella è l’unica soluzione, al momento, se non si vuole passare dalla Giudecca.  Però purtroppo in Italia non si decide, non si sa quando avverrà questa decisione ma bisogna tenere centrale la Stazione Marittima, è il terminal più bello ed efficiente. Civitavecchia stessa si nasconde a confronto…

UD: Anche se  recentemente ne hanno aperto uno nuovo a Civitavecchia?

Certo, Venezia ne ha quattro di terminal nuovi. E come logistica è, credo, il miglior terminal del Mediterraneo. In questo momento sta lavorando  sotto capacità, anche con un grosso rischio per l’occupazione. E’ una situazione molto critica.

EDD:  Prima, durante la visita nel cantiere, hai parlato delle navi Polar Class. Ci sono altre classi? Quanta versatilità hanno? Una Hurtigruten può navigare esclusivamente in alcuni mari? Quali sono i limiti?

Le Polar Class fanno parte della navi da crociera expeditions. Sono navi più piccole, solitamente sono sotto le 20 mila tonnellate. La tendenza attuale è quella di costruire una nave expeditions con tutte le caratteristiche polar class, in quanto molte sono destinate a navigare in Artico e Antartide. Le caratteristiche differenti di queste navi sono lo spessore delle lamiere e la paratia anti sfondamento a prua, che è stata concepita per poter  urtare gli iceberg.  Un iceberg potrebbe fendere la lamiera di una nave da crociera normale, ma non di una polar class. Forse il doppio scafo potrebbe diventare una costante anche per le altre navi.